top of page
Immagine del redattore28recensionidop

Creepshow (1982)

Aggiornamento: 24 ago 2019

Creepshow, del 1982 più che un film è un vero e proprio sussidiario dell’orrore, scritto da Sua Maestà Stephen King e diretto dall’altrettanto maestoso papà degli zombie, George A. Romero.

E ritengo di avere buone ragioni per asserirlo perché il duetto ha infestato la pellicola di tutti i nostri amati personaggi: zombi, mostri sanguinari, insettacci diabolici, inediti e silenziosi alieni… Oltre che irrorarla di una sempre puntuale ironia e di tutto l’amore per il cinema del terrore, di cui solo due veri “romantici” come King e Romero potevano essere capaci.

La pellicola, divisa in cinque gustosissimi, spaventosi e memorabili episodi madidi d’humor macabro, è incorniciata da un prologo ed un epilogo che hanno come protagonisti Stan, un padre tutto birra e chiesa (breve ma intenso Tom Atkins), una moglie/madre vittima del suddetto e, infine, il vispo e adorabile Billy, amante dei fumetti horror della EC comics targati anni ‘50 (Tales from the Crypt e simili per intenderci), qui incarnato da un certo Joseph Hillstrom King…

E se pensate sia un caso di omonimia devo prontamente smentirvi; è proprio il figlio del nostro Stephen!

Il pargolo ha una stanza corredata da mostri di gomma, poster di film del terrore (valga per tutti l’omaggio al Dracula di Bela Lugosi) e nasconde sotto al letto i fumetti tanto odiati dal paparino ma amati dai nostri autori, avendone ispirato la pellicola.

Per “dare una lezione” al supplicante e indifeso Billy, affida i giornaletti alla pattumiera, dopo averlo rabbiosamente redarguito e malamente schiaffeggiato. Diciamo subito che la voglia di parricidio scivola copiosamente dagli occhi del giovane protagonista per approdare alle mani di noi spettatori che, inevitabilmente, cominciano prudere.

E proprio mentre riteniamo che una sorta di subitanea e preferibilmente dolorosa giustizia debba fornirci il necessario appagamento ecco che, proprio lui, lo “Zio Creepy” dei fumetti, in marcescenza ed ossa, s’affaccia alla finestra sotto lo sguardo divertito e soddisfatto di Billy, soddisfatto che le sue “preghiere” abbiano prodotto l’ effetto (in)desiderato.

Sarà lo “Zio” a presentarci tutti gli episodi che, già dalla “mise-en-scène”, caratterizzata da sapienti e puntuali split screen a simulare le vignette, da colori taglienti come rasoi, certamente devoti anche alla fotografia dell’immenso e nostrano Mario Bava, ci introducono anima e corpo dentro la filosofia cruda e macabra del film.

Nel primo episodio, dal titolo “La festa del papà”, la vecchia zia Bedelia (Viveca Lindfors) componente di un’aristocratica famiglia è l’ospite attesa, come ogni anno, per i festeggiamenti della festa del papà, l’odiato e malvagio, Nathan Grantham; dai racconti degli invitati, annoiati e interessati solo a ingozzarsi e ubriacarsi, viene fuori che il defunto era un essere decisamente spregevole che, dopo aver tormentato la giovane Bedelia, le uccide, per pura gelosia, persino l’unico grande amore, sparandogli “accidentalmente” in faccia durante una battuta di caccia.

Ovviamente il cerchio di sangue si chiude con la vendetta di Bedelia che, durante uno dei tanti esercizi di malvagità del perfido padre, gli fracassa la testa con un pesante posacenere.

Un alibi di ferro la salva dalla forca e, grazie a uno split screen la ritroviamo, giunta alla magione, prima di ricongiungersi all’ipocrisia familiare, accanto alla tomba del padre, nel vicino cimitero di famiglia.

Fra una maledizione e una rimembranza, una risata isterica e un pianto tormentato, sorseggia del buon “Jim Beam” confessando a se stessa, ancora una volta, il parricidio…

La bottiglia cade, l’alcool bagna la tomba.

La mano putrefatta di papà Nathan squarcia un indimenticabile (fra i miei primi salti dalla sedia) primo piano, sotto gli occhi atterriti di Bedelia che altro non può fare che lasciarsi uccidere dallo zombi fresco di conio.

Il patriarca è tornato dall’Ade per la sua torta.

E in un modo o nell’altro la otterrà.

Il secondo episodio ha come protagonista lo stesso Stephen King e si intitola “La morte solitaria di Jordy Verrill”, un bifolco assai triste che una sera assiste, meravigliato e inebetito, all’arrivo di una meteora sul suo campo.

Si avvicina, la stuzzica, questa si apre fra luci e fosforescenze varie.

Jordy comincia a fantasticare sui bei “bigliettoni” che potrà tirare su vendendola al fantomatico “Dipartimento delle Meteore”.

Ma il sogno viene presto sostituito dal peggiore degli incubi quando il disgraziato si rende conto che la meteora porta solo sventure e una pericolosa “verdura aliena”; questa, nel giro di una sola notte, comincerà ad infestare, come una sorta di muschio, ogni cosa, animata e non.

Il giorno dopo, in una sequenza struggente, martoriata da un’efficace e acida dominante verde, Jordy, ridotto ad un ammasso di sofferente “erbaggio alieno”, troverà il coraggio di porre fine al suo patimento, pregando dio che il colpo che sta per esplodere con il suo fucile vada a segno, spappolandogli quel che rimane del cervello...

E siamo al terzo, forse fra i più claustrofobici episodi, con un inedito e cattivissimo Leslie Nielsen nei panni del cinico Richard Vickers, personaggio certamente lontano anni luce dalle spassose “pallottole spuntate” che qui, invece, torneranno utili per minacciare, revolver alla mano, l’amante di sua moglie, Harry (Ted Danson), costringendolo ad autoseppellirsi in una semi deserta spiaggia e ad assistere alla morte della sua amata. Lei, in lacrime e supplicante un aiuto che non arriverà mai, è dall’altra parte della spiaggia, qausi totalmente sepolta dalla sabbia e in balia di un’inesorabile alta marea che, presto, le regalerà la peggiore delle sorti…

Tornato nella sua moderna villa, Richard, attraverso monitor collegati alle telecamere puntate sui malcapitati amanti, si godrà il macabro spettacolo, assistendo alla morte lenta e terribile dei due che, pian piano, affogano nel loro atroce destino fatto di fetide alghe e acqua salata.

Ancora una volta (d’altronde quando c’è di mezzo papà Romero è d’obbligo) assisteremo alla vendetta di due ributtanti “zombi d’acqua”, pronti ad offrire a Richard, sconcertato e in preda a un’isterica follia, la sorte a loro precedentemente destinata…

Il quarto episodio (il mio preferito assieme all’ultimo, devo ammetterlo) parla di un’orrenda creatura, nascosta da centinaia di anni in una cassa, proveniente da una spedizione in Antartide, tramite una certa Julia Carpenter (e detto ciò lascio a voi tutte le possibili interpretazioni della “cosa” dentro la cassa).

L’oggetto è sepolto nel polveroso sottoscala di un dipartimento universitario e, durante il suo turno di pulizie, il custode del plesso, per puro caso, ne fa la scoperta, ignaro del micidiale contenuto; ritenendo che il ritrovamento possa avere una qualche rilevanza, contatta il professor Dexter Stanley (Fritz Weaver) che prontamente lo raggiunge.

I due cominciano con grande curiosità a forzare il coperchio ma si rendono subito conto che dentro la misteriosa cassa c’è qualcosa di strano. Qualcosa di strano e soprattutto “vivo”.

La prima vittima è il povero inserviente, letteralmente risucchiato dentro la tana secolare del mostro, dilaniato e sbranato sotto gli occhi disperati del professor Stanley che ha il “privilegio” di vedere per pochi secondi il feroce occupante: una sorta di tozzo primate a metà fra una pelosissima scimmia e un lupo, tutto artigli e zanne e con una bocca grande grande…

Per mangiarti meglio.

Terrorizzato e in preda alla più disperata delle follie, il luminare, scampato per miracolo al menù di “Fluffy” (questo il nomignolo di scena affibbiatogli da Romero) corre a chiamare aiuto e si imbatte nell’aspirante seconda vittima della bestia: uno studente scettico che pagherà con la vita, pochi minuti dopo, la sua incosciente curiosità.

Malgrado la ragione sia ridotta ai minimi termini e nausea frammista a terrore puro gli mordano la gola, il professor Stanley trova la forza di fuggire via per trovare conforto e aiuto nel collega e amico Henry Northrup (Hal Holbrook, il reverendo Malone di Fog, per chi non lo ricordasse); questi, dopo aver verificato che il delirante racconto di Dexter corrisponde a verità, con una lucidità spietata tanto quanto l’istinto omicida della bestia nella cassa, decide di sfruttare gli eventi a suo favore: il povero Henry, infatti, è succube di una sguaiata quanto perfida moglie, Wilma ( l’Adrienne Barbeau, ex moglie di Carpenter ed eroina di molti suoi film) che trova divertente e appagante umiliarlo in pubblico e in privato.

Wilma morirà, di lei non rimarrà traccia se non nello stomaco della bestia che lo stesso Henry provvederà a imprigionare di nuovo nella cassa, gettandola da una scogliera e seppellendola in fondo al mare.

E’ tutto finito.

O no?

Approdiamo al quinto episodio che, facciamo subito chiarezza, non è alla portata dello stomaco di tutti. E non perché vi siano smembramenti particolarmente cruenti e scene di violenza gratuita in stile ”Hostels”. Nulla di tutto ciò.

I protagonisti assoluti di questo episodio sono dei ripugnanti e velocissimi scarafaggi, centinaia di immondi scarafaggi: di tutte le specie e di tutte le misure.

La vittima prescelta del loro brulicante e inesorabile incedere è lo sprezzante e misofobico riccastro Upson Pratt (E.G. Marshall, uno dei memorabili membri della giuria popolare de “La parola ai giurati” di Sidney Lumet) che vive in uno scarno e asettico appartamento, governato da una domotica al servizio delle fobie del suo folle occupante e progettato per tenere lontano contaminazioni esterne di qualunque natura e i tanto odiati “germi”.

Unico frivolo diversivo che interrompe il biancore lapideo dell’appartamento è un vecchio juke-box che più che intrattenere con le sue vecchie musiche, sembra dileggiare sinistramente le paure di Pratt.

Sostanzialmente, questo “simpatico” soggetto è un schifoso razzista che odia (così vuole il cliché) qualunque cosa diversa da lui e che, soprattutto, possa costituire veicolo di contaminazione.

Per Upson Pratt che tu sia un germe, una blatta o un inserviente non importa: sei comunque un agente contaminante e, possibilmente, al suo servizio. Sacrificabile all’occorrenza, schiacciabile se il caso lo richiede.

Purtroppo il destino sta riservando al Nostro una morte atroce e grottesca, perfettamente in linea con la sua fobia (e la sua “etica” ammalata).

Durante un blackout l’appartamento e le sue difese vanno in tilt e una quantità esagerata di ripugnanti scarafaggi invade ogni angolo del locale (il set completamente bianco è un quadro perfetto che fa risaltare (s)gradevolmente gli improvvisati attori a sei zampe) costringendo il terrorizzato Pratt a trovare rifugio in una sorta di “panic room”.

Proprio quando sembra che tutto lo schifo sia rimasto fuori a premere contro le pareti in vetro della camera, il suo occupante si rende presto conto che l’orda di blattoidei era lì ad attenderlo, sotto una coperta.

La moltitudine infernale lo circonda e lo assale.

Il cuore non regge e Pratt crolla sul pavimento, esanime.

Finito il blackout, l’alloggio sembra essere tornato al surreale biancore di prima, non c’è traccia degli immondi insetti…

Ma è solo un’illusione: in una scena divenuta celebre per la sua oscena e rivoltante verosimiglianza, gli scarafaggi erompono dal corpo di Pratt, facendosi strada dalla bocca e dal petto, squarciandogli il torace.

E siamo giunti, devo dire a malincuore, all’epilogo, in tutti i sensi.

Ricordate il piccolo Billy e la sua (im)perfetta famiglia?

Eccolo accanirsi, spillone alla mano, su una bamboletta voodoo, circondata da un cencio giallo…

Da basso, la madre, come si conviene a una moglie modello, stira la camicia del marito-padre-padrone. La camicia è gialla, insolitamente strappata…

Cosa sono queste fitte che il malvagio Stan lamenta prima sul collo e poi dritto alla gola? E che lo condurranno, così si intuisce, verso morte certa?

Dovevi prestare attenzione al maledetto giornaletto che hai buttato nella pattumiera Stan…

ti saresti accorto che hai tralasciato un particolare importante, fondamentale. Una pagina con la pubblicità alquanto insolita di una bambola voodoo, comodamente ordinabile tramite il coupon allegato.

Bravo Billy, ottimo acquisto...


Dedicare il giusto spazio-tempo alla stesura di questa recensione era per me un atto quasi dovuto o, se preferite (io preferisco a dire il vero), un atto d’amore.

Ammetto che questo lungo scritto è intriso di una quantità esagerata di irriverenti spoiler e fattacci che, magari, andavano non citati per non guastare la festa al lettore curioso o ignaro. Però, concedetemi, chi abita queste pagine dovrebbe conoscere bene questa pellicola; lo spoiler, se omesso, in questo caso, correva il rischio di sconfinare in una volgare scortesia; quasi come non salutare un commensale dopo averne annunciato l’arrivo a casa vostra.

Ogni episodio è stato “evocato” dunque. Un po’ come si fa con certi rispettabili e temuti demoni.

Perché difficilmente, nel cinema, si ha il privilegio di assistere ad un’opera appassionata come questa, devota ad un certo (ormai quasi estinto) modo di fare film, pregno di rispetto per quella, cosiddetta, letteratura minore, ossia quei fumetti che nell’America degli anni 50 furono ingiustamente censurati e consegnati all’oblio e verso i quali George Romero e Stephen King sono artisticamente debitori.

Un binomio, quello fra il prolifico regista e il visionario scrittore, che, come una miscela altamente esplosiva, deflagra per tutta la pellicola, spazzando via schemi predefiniti e rancida morale, mettendo a soqquadro casi e cose, seppellendo e riesumando con violenza certi cattivi pensieri; tra sfrontati parricidi, bestiali “moglicidi”, rivoltanti insettacci, corpi dilaniati, contaminati e profanati senza pietà alcuna.

Prima di chiudere definitivamente la cassa e gettare questa recensione in fondo all’oceano, è tassativamente necessario ricordare due cose.

La prima: parte del meritato successo di questa pellicola è da attribuirsi ad un certo Tom Savini (fra i più celebri effettisti del cinema dell’orrore e spesso attore, come nel caso di Creepshow) che con dell’ottimo ed efficace “artigianato speciale” popola il nostro festival dell’orrore di creature quasi mitologiche, difficili da dimenticare (valga per tutti Fluffy, la bestia nella cassa).

La seconda è la colonna sonora, che nel genere horror determina, spessissimo, la buona riuscita di un film, divenendo vero e proprio corredo genetico e cuore pulsante di tutto il girato.

Nel caso specifico, il tema principale composto dall’eclettico John Harrison (grande amico di Romero), diffonde un alone di opprimente e allo stesso tempo irridente “discorso sonoro”, bisbigliando e al contempo urlando, all’insaziabile spettatore, che qualcosa di veramente terribile sta per accadere.

Creepshow, così mi piace pensare, lasciando che il germe di una nobile citazione faccia il suo corso, è un affilato e invisibile cavo d’acciaio teso tra un (in)sano umorismo e dell’onesto terrore, contro il quale lanciarci a folle velocità su una luccicante Ferrari 330 Spyder, all’unico scopo di rimetterci, silenziosamente, la testa… per il piacere di far parte dell’orrore e di tutti i suoi infiniti, multiformi e ironici, esercizi di stile.

Titoli di coda...

Romero colpisce ancora...

Regia: George A. Romero

Produzione: Laurel Entertainment Inc. (1982)

con Stephen King, Tom Savini, Hal Holbrook, E.G. Marshall, Leslie Nielsen, Adrienne Barbeau, Viveca Lindfors, Ed Harris, Ted Danson, Tom Atkins, Joseph Hillstrom King , Fritz Weaver

14 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page