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La casa dalle finestre che ridono (1976)

Aggiornamento: 24 ago 2019

Molto spesso, quando si pensa al cinema horror italiano, lo “spaghetti horror” come qualcuno lo ha apostrofato in alcuni casi, la memoria approda inevitabilmente sui classici registi che hanno regalato al nostro cinema di genere capolavori indiscussi quali Zombi 2 di Fulci, Profondo Rosso di Argento, Cannibal Ferox di Lenzi, giusto per citarne qualcuno (e sappiamo che l’elenco è lungo e vario).

Poi ci sono film e registi che, pur appartenendo a tutt’altro tipo di narrazione, sono riusciti a regalarci qualche gioiello che, per atmosfere e plot eguagliano, se non in certi casi addirittura superano, i loro fratelli “degeneri”.

Fra questi, senza dubbio, va ricordato Pupi Avati che con “La casa dalle finestre che ridono” del 1976 ha definito i confini del “gotico alla padana”, sorretto da suggestioni appena velate, marcescenti e indicibili verità e una lentezza quasi claustrofobica, contrapposta, nel caso specifico ad una violenza schietta e probabilmente invocata (o evocata) più dalle leggi di mercato dell’epoca che dalla sensibilità artistica del buon Avati, maestro evocatore e delicato.

Il Nostro, tuttavia, dimostrerà qualche anno dopo che le pellicole definite horror non gli stanno necessariamente strette, dirigendo il film “Zeder” che parla addirittura di morti che ritornano dalle tombe...se vogliamo, zombi.

Nella storia raccontata dal regista e dal valido drappello di sceneggiatori (fra i quali Gianni Cavina, che è anche uno dei protagonisti, Antonio Avati, lo stesso Pupi e Maurizio Costanzo) il protagonista, Stefano (Lino Capolicchio), è un restauratore incaricato di portare agli antichi splendori un affresco semidistrutto, sepolto nella serafica quiete di una chiesa della provincia di Ferrara.

L’opera raffigura il martirio di San Sebastiano in un versione parecchio sinistra, ed è stata dipinta da un pittore definito pazzo, tale Buono Legnani, suicidatosi molti anni prima.

E’ inutile sottolineare, con questi preamboli, che attorno all’affresco e al suo autore, comincia, sotto gli occhi dell’ignaro ma acuto Stefano, ad addensarsi una fitta nebbia di misteri e verità nascoste: emissari di queste omissioni, quasi tutti gli abitanti della piccola comunità e soprattutto il parroco della chiesa, Don Orsi, figura che percepiamo da subito laida e falsamente disponibile.

Nel film c’è anche spazio per una tenera storia d’amore fra Stefano e la giovane e bella maestra, Francesca (l’allora sconosciuta e bellissima Francesca Marciano). Ai giovani viene concesso il breve respiro di una cocente passione destinata, tuttavia, ad un tragico epilogo: sorte che verrà condivisa anche da tutti quelli che cercano di alzare il velo sul mistero orribile che trasuda da ogni angolo e concedere al curioso e spaventato Stefano una possibilità di salvezza.


Se fosse possibile trasporre su tela questa “casa” di Avati probabilmente dovremmo, a parere di chi scrive, ricorrere al pennello angosciato e tormentato di Hieronymus Bosch.

Perché nella mise-en-scène, ogni elemento, fosse una prospettiva, uno sguardo rassicurante, un paesaggio madido di nebbie, il legno massacrato dall’umidità di una persiana, una porta, sembrano nascondere un significato occulto, un sottobosco spaventoso e marcio che il regista inocula, sequenza dopo sequenza e nell’incalzare soffocante dell’orrore svelato, direttamente nel cervello dello spettatore: questi, dal canto suo, accoglie con rassegnata sfiducia la possibilità di una via di fuga, di un approdo, di un terreno fermo e non melmoso sopra il quale darsi alla fuga e, possibilmente, seminare, esattamente come il protagonista nelle ultime battute del film, il pericolo incombente che striscia a pochi passi da lui/noi.

Il colpo di scena che abita gli ultimi metri di questa originalissima e magistrale pellicola sarà parziale liberazione per lo spettatore, preso allo gola e a pochi passi dalla morte, proprio nel momento in cui le sirene salvifiche della polizia s’apprestano ad irrompere, lacerandola, dentro la trappola tesa sin dall’inizio da un Don Orsi che tale non è: una figura, come già detto, viscida e necessariamente blasfema, ultimo cardine attorno al quale, la vicenda, s’appresta ad un finale per certi versi aperto e, indubbiamente, liberatorio.

L'orrore sullo sfondo...

Regia: Pupi Avati

Produzione: Gianni Minervini e Antonio Avanti per A.M.A. Film (1976)

con Lino Capolicchio, Francesca Marciano, Gianni Cavina

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