Narciso Ibáñez-Serrador, regista spagnolo recentemente scomparso, è molto conosciuto in patria per la serie “Historias para no dormir” (una serie del terrore a episodi tratti, tra gli altri, dai racconti di Bradbury e Poe) e per la regia televisiva di un celebre gioco a premi “Un, dos, tres... responda otra vez”.
Ma su queste pagine, “Chicho” (pseudonimo con il quale è noto in Spagna) Ibáñez-Serrador verrà ricordato per aver girato, nel 1976, uno di quei film per i quali l’appellativo “cult” è d’obbligo, senza condizione alcuna. E non perché sia un appellativo comodo e “di tendenza”. Cult, qui, è sinonimo di innovazione e capacità di osare.
Di scardinare, distruggere, provocare ferite (e feriti) abbandonando ogni concetto comodo di morale a buon mercato.
Il film in questione è “Ma come si può uccidere un bambino?” che già dal titolo evoca un terribile interrogativo, già di per sé sufficiente a destare la curiosità dello spettatore più smaliziato e vorace.
Un titolo, in forma di domanda, che ammetterebbe una sola replica, precisa, univoca, libera da ogni dubbio.
Invece, la storia, nel suo sovversivo e disturbante crescendo, conduce lo spettatore verso tutt’altra direzione, contribuendo a (de)costruire una risposta (che qui ha i connotati di un’atroce sentenza) che nel finale ci apparirà liberatoria.
Ma solo per pochi istanti…
I titoli di testa presentano subito il conto allo spettatore, proponendogli un inesorabile, onesto, veritiero ma alquanto “scomodo” montaggio documentaristico di guerre e disgrazie umane nelle quali, la peggio, ce l’hanno proprio loro, i bambini. Le sequenze, commentate da una voce mesta che ne descrive i contenuti, sono intervallate da ulteriori immagini, crude come solo la realtà sa essere, stavolta accompagnate dal tema musicale del film, una sorta di cantilena infantile, più volte ripresa durante la pellicola.
Tom (Lewis Fiander) e la moglie incinta Evelyn (Prunella Ransome) decidono di trascorrere le vacanze nelle pacate e assolate atmosfere mediterranee, scegliendo come meta la tranquilla isola di pescatori di Almanzora.
E tranquilla lo è di certo, visto che, appena sbarcati, si accorgono che il posto, oltre che da una canicola asfissiante è avvolto da un silenzio irreale e oltremodo inquietante. I giovani coniugi, stanchi e affaticati, desiderano solo acqua e cibo e approdano in un bar dentro il quale, in un girarrosto elettrico, un pollo ormai bruciato viene tormentato dal calore.
Da molte ore, così intuisce la donna.
La puzza di bruciato da fisica diventa ben presto metaforica per concretizzarsi, inevitabilmente, nel peggiore degli incubi quando Tom e la moglie assistono, dopo aver preso a malapena coscienza di quanto ingannevole sia la finta quiete del posto, al massacro a suon di bastonate di un vecchio.
L’assassino è una graziosa e divertita fanciulla che, sotto gli occhi disperati di Tom, fracassa la testa al poveretto. Non vediamo la scena, la intuiamo dall’inesorabile su e giù del randello e dalla soggettiva interrotta dall’arrivo tardivo del protagonista.
Da qui in poi, il veleno è nella pellicola, e assisteremo ad un crescendo di cadaveri “adulti”, sistematicamente martoriati dagli unici abitanti dell’isola: i bambini.
Una sorta di follia collettiva, una mutazione comportamentale, veicolata attraverso l’atto ipnotico dello sguardo, ha creato un breve ma decisamente letale esercito di piccoli assassini. Forse, memori di tutte le ingiustizie mostrate già dai titoli di testa o chissà, incazzati da certi iniqui scappellotti sulla nuca...
Ad ogni modo, nessuna spiegazione (tra le righe e non) viene data al fenomeno e ciò rende la rivolta ancora più mostruosa e scioccante. Altrettanto inquietante sarà per lo spettatore comprendere che questo “contagio” avviene attraverso lo sguardo: lo apprendiamo in una sequenza laconica e inesorabile nella quale un bambino “infetto” trasmette a un suo simile il Male.
I giovani assassini, organizzati in veri e propri branchi, ci offrono un’ulteriore e magistrale “mise-en-scène” del “cinema d’assedio”, paradossalmente claustrofobico, malgrado gli scenari siano indubbiamente agorafobici e fortemente illuminati. José Luis Alcaine è il pluripremiato direttore della fotografia che in un'intervista ha sgomberato il campo da ogni ombra (appunto), affermando che la rappresentazione dell’orrore non deve necessariamente passare da una fotografia fatta di virtuosismi illuminotecnici, anche giocati sul potere occultante dell’oscurità, anzi; la massima efficacia si può raggiungere proprio quando la paura irrompe nella quotidianità, nella vita normale.
Infatti questa è un’opera “alla luce del sole” dove nulla viene sottaciuto. La potenza visiva è affidata alla prepotente schiettezza delle immagini, all’onestà di un’illuminazione (in)naturale, tagliente e “sovraesposta”, qui, complice involontaria di un massacro folle e privo di apparenti motivazioni.
A pochi passi dalla fine, Tom, cerca disperatamente di portare in salvo la moglie, barricandosi all’interno del posto di polizia locale, dove i cadaveri dei pochi agenti, forse colti di sorpresa, annullano ogni possibilità che qualcuno o qualcosa (Provvidenza compresa) possa aiutare la giovane coppia.
In questo luogo-trappola disabitato, illuminato da una luce stavolta artificiale e pallida, intrisa d’odor di morte fino al soffitto, i bambini cercano di irrompere in tutti i modi.
L’unico accesso eleggibile è una finestrella attraverso la quale uno dei piccoli assassini, revolver alla mano, cerca di freddare Evelyn. Ma Tom è più rapido, e con un fucile mitragliatore precedentemente raccattato sul pavimento, uccide il bambino.
Fra il silenzio dei compagni e, occorre ammetterlo, lo sguardo assai disorientato di noi spettatori, testimoni di un cinematografico peccato, davvero “originale” (inedito, ai tempi, nella storia del cinema del terrore), si coagula la sequenza successiva, assai cruda e amara, nella quale Evelyn scoprirà che il bambino che porta in grembo è diventato uno di “loro”.
Verrà uccisa, in quanto adulta e in quanto moglie di un adulto assassino, dall’interno, fra sofferenze e tormenti ben interpretati dall’eccellente recitazione di Prunella Ransome.
La morte del piccolo mostro genererà anche una sorta di “prudenza collettiva” nei compagni che, se prima avevano agito nella consapevolezza che un adulto non ucciderebbe mai un bambino, ora battono in ritirata per architettare un piano (in)cosciente e prudente.
La vulnerabilità appena acquisita, ricorda ai sinistri fanciulli (di gran lunga più terribili di quelli de “Il Villaggio dei dannati” di Wolf Rilla) che malgrado il loro potere collettivo, un adulto, per definizione, è sempre pericoloso…
Giunti alle battute finali della pellicola non possiamo non tenere conto che il finale ricorda terribilmente “La notte dei morti viventi” di Romero o, forse di più, il nostrano “Zombi 3” di Fulci (Mattei e Fragrasso per completezza) in cui al protagonista, a pochi millimetri dalla fine, viene riservata la peggiore (e ingiusta) delle sorti.
Diciamolo subito: non c’è traccia di lieto fine in questo film, anzi. Lo scenario è privo di speranze e spiragli, anche minimi.
Il film di Serrador, ha avuto il merito di infrangere un tabù, scardinare le certezze di quello che mai avremmo voluto vedere in un film, fosse pure dell’orrore: l’uccisione dell’innocenza.
Quel che conta, qui (ma anche altrove a parere di chi scrive) è l’efficacia delle immagini sovraesposte, costruite su desolate prospettive (i vicoli della cittadina di Almanzora), spennellate da tinte rosso sangue, come fiori inesatti, concimati e poi sbocciati a suon di pallottole, esplosi sul petto di quei terribili bambini archetipi della violenza “in potenza”.
Il Male qui è un germe virulento, insidioso e invisibile che facilmente, come spesso accade nel cinema, si annida nella purezza, nella carne corruttibile e inerme.
Per i piccoli e spietati abitanti di Almanzora, quel che noi chiamiamo abominio e assassinio è in realtà un gioco, null’altro che un passatempo.
D’altronde, “loro”, hanno molteplici ragioni per ribellarsi agli adulti (allora come oggi): in questo film, per certi versi, è necessario giustificare il massacro di “noi” grandi, sempre troppo distratti dal nostro bieco quanto cieco quotidiano, che ci rende incapaci e inadatti a riconoscere le vere vittime della violenza strutturale, ossia i nostri stessi "cuccioli".
Chi vi scrive ha (ri)visto il film in uno dei tanti pomeriggi d’agosto di noi appassionati e spassionati amanti dell’horror, quello lontano dai clamori, dalle medagliette e dalle menzioni, anche se, ovviamente, questa pellicola le merita (e per fortuna così è stato) tutte.
Perché siamo di fronte ad un’opera complessa e magistrale, onesta e priva di “maniere”. Un racconto spietato e per certi versi poetico avente, fra gli altri, lo scopo di correggere una modalità della visione spesso abituata alle banalità dei déjà-vu più sfrontati e a quel cinema “cacadollari” a cui, purtroppo, ci hanno ormai abituati.
Regia: Narciso "Chicho" Ibáñez Serrador
Produzione: Penta Films (1976)
con Lewis Fiander, Prunella Ransome, Antonio Iranzo, María Luisa Arias
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